sabato 19 marzo 2016

"Lettera a Pietro, mio padre"


La faccia bruciata dal sole e nera per il carbone: il primo ricordo indelebile della mia infanzia, avevo
tre anni, lo ricordo velato come in un sogno. Io che mi nascondevo dietro la gonna della mamma, perché avevo paura, non ti riconoscevo. Lei che mi spronava ad abbracciarti, incurante se potessi sporcarmi. L’amaro della fuliggine del bacio sulla guancia; spalavi carbone in stazione, rimasuglio di un’epoca che cercavi di dimenticare: quella della guerra che ti aveva portato via sette anni di vita. Erano gli anni sessanta, anni duri in cui tutti i lavori erano buoni per campare, e tu non ti sei mai tirato indietro. Avevi me, e avresti fatto di tutto per non farmi mancare niente. Porto il nome di tuo padre “Alessandro”, per una continuità dell’antica tradizione familiare: ne sono fiero come ne sono fieri i tuoi nipoti. Tu non avevi avuto la possibilità di studiare, e hai voluto non negarla a me: il sudore della tua fronte mi ha dato un’istruzione, offrendomi la possibilità di evolvermi nella conoscenza.  I ricordi si susseguono, sembravano persi. Ti rivedo in stazione a scaricare a mano quei lunghi treni pieni di balle di carta, ed io che correvo da te appena uscito da scuola, per tornare a casa insieme, sulla moto. Sì la tua moto, la mia passione: nei giorni di festa dal lavoro, ero lì a pregarti se la prendevamo per farci un giro e tu, seppur stanco dopo un lunga settimana, mi accontentavi. Il giro era una scusa, volevo portarla e tu, malgrado avessi paura per i miei dodici anni, paziente ti sedevi sul sellino posteriore. Quando divenni più grande, non te l’ho mai detto, sapevo dove nascondevi la chiave e, senza farmene accorgere, te la rubavo, per farmi un giro, pavoneggiando davanti agli amici. Mi è sempre rimasto un dubbio, che tu lo sapessi, avevi tanti amici, e qualcuno te l’avrà pur riferito. Andavamo d’accordo; poi ecco gli anni della ribellione, la differenza generazionale era tanta: quarantaquattro anni. Erano gli anni settanta, io che volevo seguire la moda dei capelli lunghi, mentre tu eri ancora fermo nell’idea che l’aspetto identifica la persona, e allora le interminabili liti all’ora di pranzo, dove la mamma cercava di far da paciere, senza riuscirci. Tu eri testardo ed io ho preso da te; immancabilmente finivano con me che mi alzavo ed uscivo, sbattendo la porta. Negli anni mi sono dovuto ricredere: “l’abito non fa il monaco” ma è quello che tutti guardano. Arrivarono poi gli anni della disperazione, dopo la morte di mamma. Avevamo un dolore differente, neanche in quello ci siamo accomunati. Il tuo tormento lo sfogavi contro la sorte, perché non avresti mai immaginato che il tuo faro si spegnesse prima di te: lei era molto più giovane, lei era il tuo riferimento. Ti sei lasciato andare, ti sei consumato come una candela che non ha più ossigeno per vivere; ed in un freddo mattino d’inverno te ne sei andato in punta di piedi, senza dar fastidio a nessuno. Ora che sono in età matura, quelle nostre liti mi sembrano siano state inutili e, quando ti penso, rivedo te mentre porti a spasso, orgoglioso, il tuo primo nipote Andrea, con il passeggino ai giardini, come facevi con me quando ero piccolo. L’unico rammarico è che non hai potuto conoscere il tuo secondo nipote Valerio. Sono convinto che li guardi, dovunque ti trovi, e ne sei orgoglioso.
Ciao papà.  

Alessandro Lemucchi ©